Yalla Siria. Memorie di un paese

Yalla Siria. Memorie di un paese

(english)

Correva l’anno 2006 edDamascus memories 2010 © Mariangela Sglavo io ero iscritta alla facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma. Alle prese con la Jahilliya preislamica, l’egira di Maometto nel 622, i cinque pilastri dell’Islam, la Shari’a e il diritto mussulmano e il califfato degli Omayyadi, decisi di andare a conoscere la Siria di cui proprio questi ultimi ne elevarono la capitale Damasco a uno dei più importanti centri culturali e religiosi dell’intero mondo islamico. Decisi così di partire alla volta della città in cui morì Saladino.
In molti mi dissero: „Ma dove vai! In Siria? E‘ pericoloso! Ci sono i musulmani lì, devi stare attenta! Ma poi, ma che ci vai a fare? „. Mi chiesi come mai fossero tutti così convinti di ciò che stavano dicendo, seppur non avessero mai visto nemmeno una foto di ciò che era la Siria. Viviamo in un mondo occidentalizzato e questo aggettivo porta in sé il pregiudizio di una ingiustificata forma di superiorità o comunque di progresso e civiltà, pregiudizio che in molti è proprio una convinzione piuttosto che una immotivata e discutibilissima presunzione. Chi ci dà questa sicurezza, dal momento in cui molti non hanno nemmeno mai letto un libro di storia islamica, o preso in mano un Corano? Probabilmente i media e, nel 2005, a 4 anni dall’attacco alle Torri Gemelle , devo dire che la paura diffusa dai mezzi di informazione era ancora palpabile nell’aria in particolare in quella di un paese come l’Italia che della televisione ne è sempre stata vittima.
La prima cosa che mi dissero appena misi piede a Damasco fu invece: „Mi raccomando, non fare mai il nome del Presidente. Ci sono servizi segreti nella città e a volte, per paura o omertà, sono gli stessi abitanti del posto a consegnarti alla polizia. Qui non si può parlare di Bashar al-Assad, si rischia di essere portati in carcere anche solo per aver pronunciato il suo nome“. Il mostro era quindi un presidente e dittatore dall’anno 2000, allora ancora trentaquattrenne (l’età minima per diventare presidente era in realtà di 40 anni), designato suo successore dal padre Hafiz, che era invece salito al potere con un golpe nel 1970.
Arrivai a Damasco che era buio, dormii su un tappeto a casa di amici. Al mattino scesi per strada e fui assalita da un misto di clacson, colori e voci. Questi sono i viaggi che ti cambiano, quelli in cui conosci un mondo che lo guardi e ti chiedi „Ma dove mi trovo?“
Vivevo in una tipica casa araba, con uno splendido cortiletto all’interno, in compagnia di un siriano, due americani e due australiani. Mi stupii di quanti studenti fossero attratti come me da un paese il cui nome non si sentiva molto spesso. Al contrario di oggi che è sulla bocca di tutti, purtroppo per una tragica motivazione: la guerra.
Sembrava lontana anni luce una parola del genere, in quella città che vissuta nel centro storico dava più l’idea di un piccolo paese.
L’Università di Damasco contava numerosi studenti stranieri.
Molti invece preferivano studiare nelle moschee dove, come da anni di tradizione, l’arabo classico viene insegnato sia ai futuri imam sia a studenti.
Gli imam chiamano i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno e lo fanno dall’alto dei minareti delle diverse moschee lì presenti. Rimasi incantata la prima volta che udii la chiamata: la varie voci attraversano i vicoli e si rincorrono in un fluttuare nell’aria di echi che raggiungono ogni angolo della città. Tutto si blocca per un po‘, alcuni negozi chiudono per pregare e si nota anche una particolare positività nell’aria. Come se il tempo si fosse fermato a molti anni fa. Avevo la sensazione che quella voce mi trasportasse in un momento storico che non era il presente e pensavo al fascino di una cultura che affondava le radici nel passato e che non aveva proprio intenzione di cambiare seppur andando avanti nel tempo.
La religione la sentivo viva a Damasco e mi sorprese notare che riuscissero a convivere pacificamente sunniti, sciiti, drusi, cristiani cattolici e ortodossi . Bashar del resto era riuscito a ottenere sostegno anche per questo, garantendo la libertà di culto. Adesso preferisce invece fondare le sue idee sul „divide et impera“ romano. Quale miglior modo per controllare il maggior numero di persone possibili se non quello di metterli gli uni contro gli altri? Ma io ricordo, eccome, i Siriani vivere pacificamente, coesi e uniti, al di là del credo religioso.
A circa 250 chilometri a nord-est di Damasco si trova Palmira, la così soprannominata „Sposa del deserto“, città delle rovine romane e della regina Zenobia, delle distese di sabbia interrotte da ombre di imponenti colonne del II secolo d.C. Un beduino mi fece salire su un cammello e, con l’hard tekno del mio lettore mp3 nelle orecchie, cavalcavo le dune attraversando la storia a 180 bpm.
Chiese la mia mano un altro beduino che mi condusse in groppa al suo cavallo nero nella sua oasi: un sistema di irrigazione ramificato al punto da raggiungere ogni pianta rendeva rigogliosa quell’area e ci permetteva di godere del fresco mentre bevevamo un tè. Mi chiese di indossare l’abito tipico di una sposa del deserto. Lo provai, mi calzava a pennello ma, ringraziando, rifiutai gentilmente l’offerta di matrimonio.
Quello del sapone di Aleppo era il profumo che ricordo all’interno del famoso suq coperto della città, uno dei mercati più antichi al mondo, inserito nel 1986 dall’Unesco nel Patrimonio Universale dell’Umanità , adesso distrutto dalle fiamme durante i combattimenti. Le pareti non odorano più di sapone, ma di sangue e fumo.
Tornata una sera a Damasco, alcuni amici mi portarono sul monte Qassioun, il punto più alto della città. Le luci verdi delle moschee e le blu delle chiese costellavano quella distesa di case e coesistevano in una moltitudine di colori che l’uno senza l’altro avrebbero perso di bellezza e luminosità.
Questo è quello che ricordo della mia Siria, questo è quello che vorrei ricordare. Luci accese che rischiarano il cielo, ora solcato dai fumi delle esplosioni, nelle notti di chi non sa più ricordare quanta serenità si respirava nell’aria davanti a quel panorama, fumando un arghilè, bevendo arak siriano e recitando a memoria i versi di una poesia di Nizar Qabbani: Che cosa fa quel disco luminoso?/Alla mia terra/La terra dei profeti/La terra di cuori semplici/Di masticatori di tabacco e di signori dell’oppio/Che cosa ci fa la luna?/Al punto che abbandoniamo il nostro orgoglio/E viviamo supplicando il paradiso/Che cos’ha il paradiso/Per droni ignavi e pazzi di/brama?/Che diventa un morto che cammina/nella luce della luna/Ululando alle tombe di santi morti da tempo.